Scritto da Ivano Sassanelli | Categoria: Cultura | Pubblicato il 19/03/2024
In questa terza parte del nostro percorso all’interno dell’animo umano, risulta opportuno trattare di un tema molto importante, soprattutto nell’attuale contesto sociale: “l’altrove degli innamorati”.
Infatti, il mistero della passione, morte e resurrezione di Cristo coinvolge direttamente anche gli affetti, i sentimenti, la vita coniugale e il desiderio radicale che è insito in ogni creatura umana di “amare ed essere amati”.
Tutto è illuminato dal sole di Pasqua e anche l’amore umano rifulge dell’Amore divino che Cristo ha donato al mondo: lo Spirito Santo.
Infatti, l’innamoramento umano, se viene vissuto come una somma di “due solitudini” che si incontrano, diventa, di per ciò stesso, solo una “grande solitudine”. Se, invece, si apre al mistero di Dio e dell’altro, esso si tramuta nel punto più alto della Creazione e dell’immagine e somiglianza con Dio.
Cristo “ha elevato” al cuore di Dio proprio l’amore umano facendolo diventare, per coloro che sono stati rigenerati nell’acqua del battesimo, il segno visibile – il sacramento per l’appunto – dell’unione invisibile di Cristo con la sua Chiesa.
Perciò risulta importante comprendere cosa sia e in cosa consista questa “elevazione” provocata dal mistero del Verbo incarnato.
Come punto di partenza è necessario far riferimento a ciò che nasce tra due innamorati. Il rapimento estatico dell’innamoramento è la prima tappa che contraddistingue la loro vita. Proprio tale rapporto, nel corso del tempo e con una più profonda conoscenza, è ciò che si traduce e trasforma in reciproca stima, fiducia e matura complicità.
Per comprendere ancora meglio cosa sia tale “estasi” che coinvolge i due innamorati, ci rifacciamo a Jacques Prevert e a una sua famosissima poesia intitolata “I ragazzi che si amano”:
«I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le loro risa e la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell’abbagliante splendore del loro primo amore».
Prevert ci aiuta a comprendere che nell’estasi amorosa – così come in quella mistica – si trova la radice di una “solitudine” molto particolare, un “esserci non essendoci”, una presenza che genera al tempo stesso fascinazione ed invidia. Tale solitudine, in realtà, è un altrove: “l’altrove del noi”, “l’altrove dell’amore”.
Ed è proprio questo “noi”, questo “altrove”, questa vibrazione dell’anima, del corpo e dello spirito, questa stima e rispetto reciproci, questa voglia di eternità e perennità del proprio amore, che viene elevato da Cristo a sacramento. In sostanza, si può dire che è possibile dare la dignità sacramentale a questo “noi” perché tale “altrove” possiede già una dignità intrinseca originata dal valore creaturale dei due innamorati.
Tale divinizzazione è compiuta da Cristo che, al tempo stesso, ricorda e dona ai due innamorati l’immagine e somiglianza primigenia con Dio e quella profondità del Mistero trinitario che è amore e reciproca donazione. Per converso, Dio stesso si specchia e manifesta attraverso l’amore generoso e fecondo della coppia di innamorati.
A ben vedere, dunque, gli innamorati, gli sposi, sono chiamati da Dio, e dalla loro natura di essere umani, a vivere l’esperienza primigenia della Creazione: ciò avviene in una duplice dinamica. Innanzitutto, essi diventano “concreatori” con Dio perché formano una realtà che senza di essi non esisterebbe: la “coppia”, quella comunione di amore che è il “noi” e che Cristo eleva alla dignità di sacramento. Dall’altro lato, la disponibilità alla generatività è la seconda dinamica che permette alla coppia di entrare nel flusso della Creazione che Dio continua, ancor oggi, “con” e “attraverso” di loro.
Tutto questo avviene nella libertà che, se è unita alla verità e alla responsabilità, permette di dare il giusto senso a tutti gli atti e i sentimenti della coppia: un legame, un amore, che non è il frutto maturo di un animo libero diviene, automaticamente e di per ciò stesso, una “prigione inespugnabile”.
Perciò il “sì” degli innamorati e degli sposi è, per così dire, “tridirezionale”: ossia esso è diretto verso l’altra persona, verso i figli – attraverso una genitorialità che si allarga fino a raggiungere i figli biologici, i figli adottivi e figli “acquisiti” presenti nei diversi contesti educativi – e verso Cristo.
Gli innamorati – e particolarmente gli sposi – si dicono “sì” perché scoprono l’uno nell’altra una reciprocità che distrugge il proprio egoismo: il “noi” che si forma non è un “io” al quadrato ma è un’“altra cosa”.
Nella visione cristiana, l’altro non è il completamento di se stessi, non è l’altra metà della mela – che è lo stesso Io amplificato – né l’altra parte del cuore spezzato. Se fosse così sarebbe semplicemente l’incontro di “due solitudini”, di due incompletezze che per vivere e sussistere hanno “necessità” l’una dell’altra.
L’esperienza cristiana dell’amore, invece, è libera e liberante: non si è necessitati ad amare ma si è “liberi di amare”, o meglio, è l’amore stesso che, senza indulgere nel libertinismo, libera. Chi è segnato dall’amore, dunque, vive di questo amore e fa di esso la cifra della propria vita. Per questo Agostino può affermare:
«Ama e fa ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene» (Agostino, In Epistolam Ioannis ad Parthos tractatus decem, 7,8, in PL 35).
Perciò l’amore cristiano non si qualifica come un “possesso” dell’altro, in quanto egli/ella non è una parte di se stessi o un qualcosa che deve “completare il proprio io”, ma è una “unicità e irripetibilità” da accogliere, custodire e amare con tenerezza.
I due innamorati sono formati e creati da Dio “completi” ed è proprio per questo che, nella loro libertà, possono decidere di far spazio all’altro nella propria vita e nel proprio cuore per creare un qualcosa che è distinto – ma al contempo è costituito – dai due: ossia il “noi dell’amore”.
Questo è lo splendore dell’amore e del matrimonio cristiano: spalancare il proprio cuore a Cristo e all’altro per poter realizzare il progetto di Dio sull’umanità.
La solitudine scompare e, qualora si presenti, essa sarà solo il giusto spazio che ogni innamorato e innamorata riserverà a se stesso/a per amare ancora più profondamente l’altra persona e Cristo che li ha uniti, santificati e condotti verso il Padre nell’Amore divino che è lo Spirito Santo.