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Scritto da Vito Fascina | Categoria: Cultura |  Pubblicato il 01/07/2025

Per aiutarci a comprendere la copiosa infornata di doni, che la vita ci elargisce, Papa Francesco ha scritto, con la collaborazione di Carlo Musso, già direttore editorialista di Piemme e Sperling & Kupfer, Spera. L’autobiografia.  L’idea era che questo testo uscisse come lascito, dopo la sua morte. Il giubileo della speranza ha anticipato la pubblicazione di questa narrazione.

Per i lettori de “La forbice” sono stati selezionati 7 capitoli, che si rapportano da una parte al 7° momento di riflessione e consigli librari a loro proposti, ma anche per la bellezza di questo numero, sintesi della terra il 4 e del Cielo il 3: il simbolismo ha decisamente prevalso sul cammino da percorrere.

Il 266° pontefice della Chiesa Cattolica, Jorge Mario Bergoglio, è stato capace, come molti suoi predecessori, di aiutare il credente avvezzo alla vita ecclesiale e l’uomo della strada a comprendere quanto sia splendente la felicità di un’esistenza, quando si incontri Gesù e si cerchi, come si può, di corrispondergli in ogni momento della propria vita. 

Nello scegliere i 7 capitoli e particolari episodi di questo affascinante viaggio, i termini santo, felice, umorista, grato, capace di perdono e … mille altre angolature poliedriche del suo percorso di uomo e di cristiano, ci aiutino a conoscere come abbia vissuto sempre in ascolto della Parola di Dio e ce l’abbia spiegata, rendendoci partecipi del suo discernimento, fin dall’arrivo a Santa Marta, la sua residenza papale. Non si può capire Spera, se non ci si lega ad una vita umana e vicino a Dio, come quella di Francesco, vescovo di Buenos Aires prima e di Roma poi.

Nel capitolo 22, dedicato a Per mano a una bambina irriducibile, Francesco si lascia andare a due considerazioni che suscitano gioia piena: “E’ un’esperienza reale e concretissima, la speranza. Perfino una speranza laica. La comunità scientifica ritiene ormai che questa caratteristica della specie umana sia tra i meccanismi di sopravvivenza più potenti che esistano in natura, per esempio per reagire alle malattie. Si tratta di una qualità tra le più complesse, che fa sì che il nostro cervello sia dotato di bersagli chimici che possono essere colpiti efficacemente dall’interazione sociale, dalla parole, dai pensieri. Alla luce delle recenti scoperte, si è compreso che la fiducia, le aspettative positive muovono una miriade di molecole e che questa componente psicologica utilizza gli stessi meccanismi dei medicinali, attivando infine le stesse vie biochimiche. Insomma, ben più che illusione, e anche ben più che semplice fiducia, la speranza umana è in realtà farmaco e cura.

Ma la speranza umana è ancora infinitamente più di questo: è la certezza che siamo nati per non morire mai più, che siamo nati per le vette, per godere della felicità. È la consapevolezza che Dio ci ama da sempre e per sempre e non ci lascia soli mai: << Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada ? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati>> dice l’apostolo Paolo (Rm 8,35.37). La speranza umana è invincibile, perché non è un desiderio. È la certezza che tutti camminiamo verso qualcosa che vorremmo che fosse, ma che già è”. 

Dio sorride, perché conosce che cosa abbia destinato a coloro che accettino il Suo amore prediletto: la gioia con i germogli profumati, i boccioli più variopinti e multiformi dell’umorismo, della facezia, del sorriso, per far brillare di luce il nostro viso e l’ironia, che, sinteticamente, eviti di prenderci troppo sul serio. Per chi volesse riflettere sul senso pieno degli ultimi giorni del papa argentino, tre istantanee recenti: il ricovero al Gemelli e lo sguardo aggregante per ringraziare i tanti visitatori, che hanno pregato incessantemente per lui e con lui; la benedizione Urbi et Orbi in piazza S. Pietro con il saluto finale al suo popolo, alla Chiesa mondiale, rappresentata dai pellegrini giubilari di quel giorno e, infine, il silenzioso ritorno alla casa del Padre, il lunedì dell’Angelo, con la sua mano in quella forte di Dio Padre a cui si era totalmente affidato. Egli prendendolo con sé gli avrà sussurrato: “Ti sei speso per la mia Chiesa e in ogni fratello, povero spiritualmente o  materialmente, hai mostrato il mio vero volto, la misericordia e il perdono. Vieni, figlio amato e benedetto!”.

Proseguendo col 23, A immagine di un Dio che sorride: “E’ anche una bambina spiritosa, la speranza. Sa che l’umorismo, il sorriso sono il lievito dell’esistenza  e strumento per affrontare le difficoltà, persino le croci, con resilienza. L’ironia, poi, in questo può calzare a pennello una sagace definizione dello scrittore Romain Gary, è una dichiarazione di dignità, <<l’affermazione della superiorità dell’essere umano su quello che gli capita>>. […] Pochi altri esseri viventi sanno ridere: siamo a immagine di Dio e il nostro Dio sorride. Dobbiamo farlo con Lui. Possiamo farlo persino di Lui, con l’affetto che si ha per i padri e così come si gioca e si scherza con le persone che amiamo. In questo la tradizione sapienziale e letteraria ebraica è maestra. Insieme ai nostri fratelli maggiori nella fede, siamo discendenti di nonno Abramo e di Isacco, il cui nome significa letteralmente <<Colui che ride>>. Un racconto, che in modo significativo , nei testi sacri è posto proprio all’inizio della storia di salvezza, nel primo libro della Torah del Tanak ebraico e della Bibbia cristiana, quello della Genesi. Il racconto è noto: Abramo ha sposato Sara, che purtroppo è sterile”. 

Il papa racconta con simpatia la storiella biblica e alla fine commenta: “Se il nostro nome, il nome dell’umanità, è Speranza, è anche perché siamo progenie di quel bambino, di Isacco, il Signor Umorismo. Ed è un’eredità che non possiamo permetterci di disperdere”.

Può sperare, chi conosca la propria indole, il proprio misterioso e unico percorso accanto agli altri uomini; la speranza è la sorellina minore, che spesso interroga e mette in difficoltà non solo le altre sorelle teologali, come fede e carità, ma anche le porta per mano, a testimoniare la loro intima unione.

Il 24°, Perché i giorni migliori debbano ancoravenire risalta come l’indietrismo e il credere che noi siamo stati la generazione più intelligente e feconda della storia, i famosi boomers è una grande sciocchezza. In primo luogo, perché ai cristiani, tutti e ognuno, è chiesto sempre di vivere l’esperienza unica e inesauribile della passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Ma torniamo al pontefice, che spiega molto bene che cosa accada nella vita: “Ma se individualmente la pretesa di fermare il tempo è delirante, a volte patetica, la seduzione che dipinge uniformante di rosa le complessità del passato in opposizione al presente, oltre a rappresentare un miraggio antistorico, appare anche lontana da una prospettiva di fede in qualche modo anticristiana. Perché i discepoli di Cristo non sono quelli dei <<buoni ricordi>> e Gesù non è una reliquia, un prezioso reperto da collocare duemila anni fa e neppure nei nostri languidi <<ai miei tempi>>: i cristiani devono essere testimoni della sua presenza viva oggi, e sono sempre chiamati ad abitare il domani. Essere insoddisfatti, soprattutto di se stessi, è essere uomini, e nella giusta misura è anche un buon antidoto contro la presunzione di autosufficienza e la vanagloria, ma noi cristiani dobbiamo vivere nella consapevolezza che i nostri giorni migliori devono ancora venire. E dobbiamo lottare, fare la nostra parte affinché per quanto è nelle nostre possibilità, nei nostri talenti, questo accada. 

C’è una nostalgia positiva che è tutt’altro che lagnanza e rassegnazione, ma piuttosto una spinta creatrice, vitale, legata alla speranza: è la nostalgia del pellegrino, che cammina, guarda avanti. Affronta le difficoltà, progredisce, tenendo vivo un legame viscerale  con la propria radice”.

Quella del pellegrino è stata la cifra più autentica del papato itinerante di Bergoglio. Le scarpe ortopediche, indossate dal primo giorno del suo impegno di vescovo di Roma e primate della carità universale e usate fino alla necessità estrema di doverle, purtroppo per lui così sobrio, cambiare una volta all’anno, relazionano di dodici anni instancabili, di processi avviati in ogni angolo del mondo, di una formidabile saldatura fra i giovani e questo infaticabile maratoneta della carità.

Dove ha costruito tutta questa speranza fiduciosa e caritatevole ?

Facciamo un breve sommario con tre capitoli degli anni giovanili e di piena maturità, che ci aiutino a comprendere come un uomo riservato e timido, si sia trasformato alla scuola del Maestro in un autentico atleta dell’Amore preveniente e dell’abbraccio gratificante.

Il capitolo 7, Giocavo sul globo terrestre, ci comunica il bisogno di diventare squadra e di essere un tu che si relazioni con tanti altri e diventi così un noi forte e aperto alla vita: “Giocare a calcio mi è sempre piaciuto, e cosa importa se non ero un granché. A Buenos Aires quelli come me li chiamavano pata dura. Che vuol dire avere due gambe sinistre. Però giocavo. Tante volte facevo il portiere; anche quello è un bel ruolo; allena a guardare in faccia la realtà, ad affrontare i problemi; magari non sai bene dove quel pallone è partito, ma devi provare ad afferrarlo comunque. Come accade nella vita. Giocare è un diritto, e c’è il sacrosanto diritto di non essere campioni. Dietro ad ogni palla che rotola c’è sempre un ragazzo con i suoi sogni e le sue aspirazioni, il suo corpo e il suo spirito. Tutto è coinvolto, non solo i muscoli, l’intera personalità in tutte le dimensioni, anche quelle più profonde. Infatti di qualcuno che si sta impegnando molto si dice: <<sta dando l’anima>>.

Il gioco e lo sport sono una grande occasione per imparare a dare il meglio di sé, con sacrificio anche, e soprattutto non da soli. Viviamo oggi un tempo in cui è facile isolarsi, creare legami che sono virtuali a distanza. Teoricamente in contatto, ma praticamente soli. Il bello di giocare con un pallone, invece, è che dobbiamo farlo insieme ad altri, passarci la palla, imparare a costruire azioni, crescere come singoli e affiatarci come squadra. Allora il pallone diventa non solo un attrezzo, ma uno strumento per invitare persone reali a condividere amicizia vera, a ritrovarsi in uno spazio concreto, a guardarsi in faccia, a confrontarsi per mettere alla prova le proprie abilità. Tanti definiscono il calcio <<il gioco più bello del mondo>> e per me lo è stato”. 

 

Editoriale

  • 2024-10-18 Preghiera, raccolta e Animazione missionaria
    Preghiera, raccolta e Animazione missionaria

     

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